Lo scorso 10 di giugno Aftab Bahadur, cattolico pakistano, è stato impiccato in esecuzione di condanna a morte. Il crimine di omicidio del quale era stato accusato risaliva al 1992, quando Aftab aveva solo 15 anni. Secondo i suoi avvocati la confessione di Aftab era avvenuta “sotto tortura”. Il suo caso ha attirato condanne di gruppi per i diritti umani e delle Nazioni unite.
Questa l’ultima lettera di Aftab, prima di salire sul patibolo.
“Ho appena ricevuto la mia condanna a morte. Dice che sarò “appeso per il collo fino al sopraggiungere della morte” mercoledì 10 giugno.
Sono innocente, ma non so se questo farà alcuna differenza.
Durante gli ultimi 22 anni della mia prigionia, ho ricevuto ordini di esecuzione molte volte. È strano, ma non so nemmeno dirvi quante volte mi sia stato detto che stavo per morire.
Ovviamente fa male ogni volta. Inizio a fare il conto alla rovescia dei giorni, cosa dolorosa già di per sé, e scopro che i miei nervi sono incatenati come il mio corpo.
In realtà, sono morto molte volte prima della mia morte. Suppongo che la mia esperienza di vita sia differente da quella della maggior parte delle persone, ma dubito ci sia qualcosa di più spaventoso del sentirsi dire che si sta per morire, e poi restare seduto in una cella di prigione aspettando quel momento.
Per molti anni – avevo solo 15 anni – sono stato bloccato tra la vita e la morte. È stato un limbo assoluto, una totale incertezza per il futuro.
Sono un cristiano e, talvolta, è difficile qui. Purtroppo, c’è un prigioniero in particolare che ha cercato di rendere le nostre vite ancora più dure. Non so perché lo faccia.
Sono stato molto rattristato per gli attentati anticristiani avvenuti a Peshawar. Mi hanno ferito profondamente, e vorrei che il popolo pakistano possedesse un senso di unità nazionale capace di vincere il suo odio interreligioso. C’è un piccolo gruppo di noi, qui, che è cristiano, appena quattro o cinque, e adesso siamo tutti insieme nella stessa cella, il che ha migliorato la mia vita.
Faccio tutto quello che posso per sfuggire alla mia miseria. Sono un amante dell’arte. Ero un artista – solo uno ordinario – sin da piccolo, quando non sapevo ancora nulla.
Anche allora, avevo una propensione per la pittura e per la poesia. Non avevo alcuna preparazione, era solo un dono di Dio. Ma dopo essere stato portato in prigione, non ho avuto alcun altro modo per esprimere i miei sentimenti, perché ero in uno stato di completa alienazione e di solitudine.
Qualche tempo fa ho iniziato a dipingere tutti i cartelli per il carcere di Kot Lakhpat, dove sono rinchiuso. Poi mi hanno chiesto di farlo per altre prigioni. Niente al mondo mi dà più gioia che la sensazione che provo quando dipingo qualche idea o sensazione sulla tela. È la mia vita, quindi sono felice di farlo. Il carico di lavoro è grande, e sono esausto a fine giornata, ma sono felice di questo, perché tiene la mia mente lontana da altre cose.
Non ho una famiglia che mi faccia visita, così, quando viene qualcuno, è un’esperienza meravigliosa. Mi consente di raccogliere idee dal mondo esterno che poi potrò mettere su tela. Sentirmi chiedere come sono stato torturato dalla polizia mi ha riportato alla mente ricordi terribili, che ho tradotto in immagini. Anche se, forse, sarebbe stato meglio non pensare a quello che gli agenti hanno cercato di farmi per ottenere una mia falsa confessione per questo crimine.
Quando abbiamo sentito la notizia della revoca della moratoria sulla pena di morte, nel dicembre 2014, la paura ha prevalso in tutte le celle della prigione. C’è stato un predominante senso di orrore. L’atmosfera era appesa, cupa, su tutti noi. Ma poi le esecuzioni sono iniziate davvero qui a Kot Lakhpat, e tutti hanno iniziato a subire una tortura mentale. Quelli che venivano impiccati erano stati i nostri compagni per molti anni, lungo questa strada verso la morte, ed è solo naturale che la loro morte ci abbia lasciato in uno stato di angoscia.
Mentre la moratoria sulla pena di morte è stata revocata con il pretesto di uccidere i terroristi, la maggior parte delle persone qui a Kot Lakhpat sono condannate per crimini regolari. In che modo ucciderli fermerà la violenza settaria in questo Paese, non posso dirlo.
Spero di non morire mercoledì, ma non ho alcuna fonte di reddito, quindi posso solo affidarmi a Dio e ai miei avvocati volontari. Non ho rinunciato alla speranza, anche se la notte è molto buia”.
(tratto da Asianews.it, ha collaborato Jibran Khan)